19 dicembre 2011

Sword of the Stranger

regia. Masahiro Andō
sceneggiatura. Fumihito Takayama
chara design. Tsunenori Saito
studio. Bones
anno. 2007
genere. Animazione
Senza Nome dai capelli rossi, straniero in terra giapponese. L'ossessione del passato terribile lo induce a fare un voto: non estrarre mai più la spada. Parallelamente altri stranieri architettano qualcosa di strano e ci è dato sapere solo che sono alla ricerca di un certo bambino.
Il bambino, Kotaro, e il fedele Tobimaru, sono dei ladruncoli e quasi per caso si imbattono nel rōnin vagabondo senza nome. Il mondo cinese che cerca di incunearsi nella realtà feudale del Giappone.

Forte effetto dinamico con serie di inquadrature prospettiche singolari ottenute da una discreta animazione moderna computerizzata (in genere limitante secondo il mio parere e che poco apprezzo), che dà enfasi e risalto alle scene cruente e avventurose, fondamentali per l'ambientazione storica in cui si colloca l'anime. Spettacolare ogni tipo di azione armata, frecce lance spade o stelle ninja che siano, tanto da fare salire il coinvolgimento dello spettatore. Oltretutto questo effetto viene ottenuto anche grazie al suono in progressione e alle melodie trascinanti.

Allora, adesso, avendo detto che il guerriero vagabondo solitario si chiama "Senza Nome", che la colonna sonora è avvincente e che le scene d'azione sono spettacolari, si capisce da sé che il signor Sergio Leone è stato un riferimento fondamentale. Poi parlando di Giappone, periodo Edo, samurai e via discorrendo, quello a cui si deve pensare deve avere una forte relazione con il signor Akira Kurosawa. Per stessa ammissione del regista sono proprio loro i due Maestri di riferimento. Again.

Grandissimo film, sono da apprezzare le ottime tavole di sfondo destinate a creare un panorama efficace in piena sintonia con altri elementi della trama. Scenografie che vengono sfruttate benissimo nei combattimenti, come per esempio nella bella scena iniziale sul bordo di una montagna, o nella scena finale tra calcinacci e architetture maestose.
Personaggi unici, facilmente ricordabili, completano il quadro generale di una creazione accurata, attenta in quei particolari importanti per un'adeguata rappresentazione animata del periodo feudale giapponese.

13 dicembre 2011

Cinque pezzi facili

regia. Bob Rafelson
sceneggiatura. Bob Rafelson, Adrien Joyce
soggetto. Adrien Joyce
anno. 1970
genere. Drammatico
cast. Jack Nicholson, Karen Black, Susan Anspach, Lois Smith, Ralph Waite, Billy 'Green' Bush, Irene Dailey
Vive il presente, Bobby, senza troppi pensieri, tra lavoro, fidanzata e serate con amici al bowling. Ma il suo stare cade sempre in un modo infelice, tutto scade e sale l'oppressione. Informato dalla sorella circa le condizioni di salute precarie del padre, ne approfitta per mettersi in viaggio.
Robert Dupea è tutto in quello che ci viene mostrato, scopriremo con lo svolgere della storia il suo talento al pianoforte, ma a renderlo unico rimane il suo carattere impulsivo. La prima parte di film presenta la vita quotidiana, logorante e faticosa, tra lavoro e piccoli svaghi. Circostanze che si ripetono, continue liti con la compagna sempliciotta Rayette Dipesto, tra capricci e dispetti che diventano una consuetudine. Bobby tratta proprio male la povera Dipesto, chiaramente lui viene irritato dalla figura di lei, eppure allo stesso tempo ne resta incollato, non è la solitudine quello che vuole. Non cerca proprio niente, in effetti.

"Lo sai che se non aprissi bocca il nostro rapporto sarebbe perfetto?"

Poi la parte road movie, direzione un passato remoto lasciatosi alle spalle. Ma è un viaggio verso il cambiamento, non tanto personale, quanto il "cambiare aria". Il protagonista parte ma non riesce a lasciare la fragile compagna Rayette, la quale vede nella sua partenza solo una scusa per abbandonarla.
Durante il viaggio sono peculiari le nevrosi dei passeggeri occasionali, due autostoppiste salite in macchina con Bobby e Rayette, e da ricordare in particolare le paranoie della figura maggiore tra le due donne, spinta in Alaska per sfuggire dalle "sporcizie dell'uomo"; sequenze di continui primi piani per registrarne ed enfatizzarne gli sfoghi e le ossessioni. Magistrale.
Ulteriore scena cult quella alla tavola calda, in cui assistiamo alla sfuriata del ciclopico Jack Nicholson, in una delle scene che più caratterizza la sua immensa dote recitativa. Per ordinare una omelette con pomodoro, una tazza di caffè e una fetta di pane tostato si dovono comprare due menù fissi, rigide regole del locale, senza poter prendere solo il necessario, niente sostituzioni, nessuna misera fetta di pane tostato aggiuntiva. Segue sarcasmo e sfuriata epocale, da cineteca.



Un attore giovane, non ancora star indiscussa consacrata in campo internazionale, dopo l'interpretazione in questa pellcola si guadagna la sua prima nomination agli oscar come miglior attore protagonista. Il trampolino di lancio sicuramente deve essere rintracciato dalle parti di un altro ruolo in un film precedente, Easy Rider, un personaggio ribelle che ha permesso a Nicholson di diventare Jack Nicholson. Che non sia il carattere, ma qualcosa di altro, i suoi ruoli sono sempre particolari e, forse, è proprio lui a renderli tali. L'attore per definizione, uno dei miei preferiti.

La terza parte si svolge nella casa di famiglia, tutti musicisti (tre pianoforti in tutta la casa) cresciuti nel benessere economico. Di un certo rango sociale. La sorpresa del ritorno a casa, quello stato di cambiamento e novità, presto svanisce lasciando spazio alla noia e a nuova routine, ricadendo nello stato di infelicità che sempre cerca di scacciare. Quella era una realtà opprimente in passato, abbandonata molto tempo addietro, e dopo quasi tre settimane di permanenza, pone fine alla sua visita. Quella visita era stata prolungata dalla relazione fugace con la fidanzata del fratello, e quando viene respinto definitivamente, nulla lo trattiene più in quella villa sperduta.

"I move around a lot, not because I'm looking for anything really, but 'cause I'm getting away from things that get bad if I stay."

Continua fuga, spostarsi senza nessun obbiettivo senza cercare niente, una vita sbagliata. Da una spiegazione che Bobby dà al padre catatonico riguardo alla propria situazione, la descrive esattamente come un allontanarsi "dalle cose che vanno a male". Abbandonare per ricominciare.
C-a-p-o-l-a-v-o-r-o.

06 dicembre 2011

Mutant Chronicles

regia. Simon Hunter
sceneggiatura. Philip Eisner
anno. 2008
genere. Azione, Horror, Sci-Fi
cast. Thomas Jane, Ron Perlman, Devon Aoki
Le corporazioni sono in guerra tra loro per accaparrarsi le ultime risorse naturali del pianeta. Morti su morti. Il sangue versato risveglia dalle profondità della Terra uno spietato esercito di Necromutanti. Una squadra selezionata dovrà scendere negli abissi per distruggere la "Macchina".
Che strano film questo Mutant Chronicles, non ho neanche la forza di definirlo brutto. Cosa non funziona? Innanzitutto non è coinvolgente manco per un cazzo, la storia c'è ma è narrata davvero male. Da un'idea di base che fu concretizzata nel gioco di ruolo omonimo (1993), siamo in un universo fantasy molto interessante, futuro post-apocalittico e mostri mutanti affascianti; ma la trasposizione non funziona appieno, un film indipendente senza troppi investimenti, inevitabilmente presenta enormi lacune, dalla sceneggiatura misera - ma con frasi ad effetto -, agli effetti speciali scadenti, che per un genere Sci-Fi sono inammissibili.

"Fanculo al genere umano. Fanculo al mondo. E fanculo tu!"

Una CG quasi elementare, scene girate completamente in studio sfruttando la tecnica del Green screen, non raggiunge mai neanche lontanamente i livelli eccelsi che per esempio troviamo in Sin City. Ma senza troppe ambizioni, il film resta guardabile, non annoia e inspiegabilmente rimane un prodotto curioso. Certo bisogna chiudere un occhio qua e là, e quindi per i più esigenti la visione sarebbe da sconsigliare.

Viene da pensare che ci sia una sceneggiatura pessima ma con un grande regista, capace di tenere in piedi la cosa, oppure che ci sia una grande sceneggiatura ma con un regista pessimo, colpevole di dimezzarne il potenziale. Si potrebbe supporre che siano pessimi entrambi ma bisogna tenere sempre presente che si tratta di un film indipendente. Il montaggio è terribile, non ci sono due sequenze, due, che facciano presagire uno stile definito.

Non mancano gli attori, quasi tutti arci-noti, che in qualche modo riescono ad esprimersi attraverso battute irresistibili, malgrado le carenze di copione. Thomas Jane eroe di turno, vero motivo per vedere il film, da ricordare per le interpretazioni ottime in The Punisher e nell'horror The Mist. Grandissima prova per il capitano Sean Pertwee, uno dei personaggi migliori del film. Ormai colleziona ruoli minori in film di minore importanza - con qualche eccezione -, il povero Ron Perlman, grande attore schiavo del suo volto "singolare". Cameo per John Malkovich.

Dopo tutto il film stranamente non mi ha infastidito; non riesco proprio a definirlo brutto, pur trattandosi di un brutto film, e non me la sento proprio di promuoverlo. Da vedere se si è appassionati della fantascienza futuristica e se non si hanno troppe pretese; altrimenti da tenere in considerazione almeno per gli attori presenti, poveracci, avranno mai pensato di finire in un film così? Idea di fondo affascinante, ma che da sola non regge il peso di un'intera pellicola.

01 dicembre 2011

Page Eight

regia. David Hare
sceneggiatura. David Hare
anno. 2011
genere. Thriller
cast. Bill Nighy, Rachel Weisz, Michael Gambon
Un pacato e navigato Johnny Worricker, al servizio della sicurezza interna. Poi la pagina numero otto di un file segreto. Il primo ministro nasconde qualcosa.
Non è il tipico film da consigliare, anzi la visione deve esssere affrontata per propria iniziativa perchè si ha di fronte un prodotto decisamente compatto, sostanzioso. Dialoghi abbondanti, circondano una tematica politica centrale, farciti dalle capacità recitative degli ottimi attori, mettono bene in chiaro da subito le grandi doti di drammaturgo dell'autore britannico David Hare.

Teatrali anche le scene, location quasi sempre statiche, luoghi chiusi come un appartamento o un ufficio sanno creare l'atmosfera adatta. Così molti altri ambienti scenografici che rimangono in secondo piano, ma non hanno per questo minore importanza, tutto a vantaggio di attori posti in primo piano, capaci di rimanere sempre in scena, nei piccoli gesti e movimenti appropriati ma anche nei grandi dialoghi, come già detto, ben curati. Una sceneggiatura che non permette allo spettatore di staccare l'attenzione nemmeno un secondo, si susseguono serie di botta e risposta ben argomentati e scritti decisamente in maniera eccelsa.

Lo spirito da inchiesta, fortemente sostenuto dall'esperienza dell'agente Johnny Worricker, non esprime nulla di sostanzialmente differente dalle altre pellicole di genere, ma garantisce il dovuto fascino per tenere la storia e lo sviluppo narrativo. Citando pellicole recenti come L'uomo nell'ombra o State of Play, si darebbe una certa visione sul genere, attori protagonisti di rilievo e loschi intrallazzi politici. Bill Nighy non è da meno del Russell Crowe e del Ewan McGregor dei rispettivi film, tutti e tre attori che apprezzo e un genere cinematografico che sempre adoro.

Bill Nighy affascina, magnetico, abile nella dialettica e nel riempire la scena, grande attore. Numerosi personaggi femminili, spiccano le colleghe, una su tutte la feroce Judy Davis e il ministo degli interni Saskia Reeves, ma anche l'ex moglie e la figlia di Worricker non sono da meno. Brava l'attivista politica Rachel Weisz, un ruolo di contorno ma di forte influenza sul personaggio principale.

Tirando le somme, il film mi è piaciuto molto e se dovessi descriverlo con una sola parola, penso che lo definirei decisamente Jazz. Esattamente come il protagonista. Se ci si lascia prendere dallo swing, dal ritmo della pellicola, si rimane soddisfatti e sazi come giustamente ogni spettatore merita sempre di rimanere. Fine and Mellow (Billie Holiday e Lester Young).